23 febbraio 2011

TERESA CASATI CONFALONIERI, amore e carboneria

(da 9Colonne)


La benda nera sull’occhio perso in guerra, sul petto dell’alta uniforme da generale luccicante di decorazioni anche la legion d’onore donatagli quattro anni prima, quando era ambasciatore austriaco a Parigi, da Napoleone. Lo stesso Napoleone che proprio in quel momento sta fuggendo attraverso la Francia, alla volta dell’Elba, con anch’egli indosso una uniforme austriaca, ma per non finire linciato. Lo stesso Napoleone della cui giovane moglie sposata per calcolo politico, Maria Luisa - figlia dell’imperatore d’Austria e nipote di Maria Antonietta -, si innamorerà tre mesi dopo, avuto l’incarico di sorvegliarla, da lei presto ricambiato. Quando, il 28 aprile 1814, il conte Adam Albert di Neipperg entra nel Teatro alla Scala, sfavillante della luce di centinaia di candele e delle preziose toilette delle dame, si solleva un boato di evviva ed applausi. Lo stesso boato che 18 anni prima aveva visto il teatro milanese accogliere lo spavaldo generale Bonaparte e ammirare la profonda scollatura della prima moglie Giuseppina di Beauharnais, poi ripudiata, che proprio in quei giorni del 1814 sta finendo i suoi giorni nel castello di Malmaison.



L’ovazione della Scala accoglie il generale austriaco che quel mattino stesso aveva preso possesso ufficiale di Milano - e del Regno d’Italia -, varcando con l’esercito austriaco Porta Romana. Due giorni prima il vicerè Eugenio Beauharnais, figliastro di Napoleone, aveva abdicato fuggendo in Baviera.
Ma l’aristrocrazia milanese riunita alla Scala quel 28 aprile, nel gran giorno di addio all’epoca napoleonica, accoglie anche il generale inglese Mac Farlane con altri applausi, certo minori ma decisi. Applausi che tuttavia, solo pochi giorni dopo, si faranno invece scroscianti, mentre quelli per i commissari austriaci Sommariva e Strassoldo andranno improvvisamente intiepidendosi, fine addirittura a spegnersi. Sorta di sondaggi ante-litteram, quei battimani scaligeri, vengono riferiti da una testimone d’eccezione, Teresa Confalonieri, nel cui palco i nobili milanesi fanno la fila per avere notizie sulla missione a Parigi del marito. Federico Confalonieri, trentenne esponente dell’aristocrazia antinapoleonica, è stato inviato nella capitale francese per trattare con Austria, Inghilterra e Russia sulla sorte della Lombardia, dopo il crollo di Napoleone. Il giovane conte chiede uno stato autonomo ed una costituzione liberale. Ma Teresa, informata per lettera, non riporta buone notizie. La doccia fredda arriva proprio nell’incontro con l’imperatore d’Austria, Francesco I che, “in amorevole conferenza”, dice a Confalonieri: “Voi m’appartenete per diritto di cessione, e per diritto di conquista, vi amo come miei buoni sudditi e come tali niente mi starà più a cuore del vostro bene”. E il 4 maggio, nel giorno in cui Napoleone sbarca all’Elba, il conte riferisce che si può solo “implorare ciò che un padrone ci vorrà accordare” e che sta chiedendo “l’esistenza e l’indipendenza di un paese dopo che esso era già stato venduto”. E le lettere successive, che Teresa legge nel suo salotto di via Monte di Pietà, riuniti i maggiori liberali lombardi, spengono ogni residua speranza. La delusione è tale che Teresa si ritrova a leggere una missiva del marito nella quale sostiene che “per arringare la causa d’una nazione voglionsi baionette, non deputazioni”. Molti di quelli che apprendono queste parole sentono risuonare in esse la veemenza del conte, descritto come colui che per primo aveva fatto irruzione in Senato, il 20 aprile, otto giorni dopo il tentato suicidio di Napoleone, squarciandone il ritratto e gettandolo dalla finestra. Gesto che, purtroppo, precedette il linciaggio del ministro delle Finanze Prina da parte della folla inferocita, che lo fece letteralmente a pezzi (e per anni Confalonieri si dovette difendere dall’accusa di avere aizzato la rivolta e, secondo Leonardo Sciascia, il rimorso nel giovane Alessandro Manzoni per non essere intervenuto contro la folla inferocita, avrebbe aggravato negli anni la sua depressione). Tale era l’acredine che l’orgoglioso patrizio nutriva per il governo napoleonico e che gli aveva fatto rifiutare la carica di gran scudiere offertagli dal vicerè Beauharnais, accettando solo l’onore per la moglie di essere dama di corte della viceregina Amalia Augusta di Baviera.
A peggiorare la situazione il corteggiamento ardito che Beauharnais riservava a Teresa. Lei rifiuta con garbo le profferte del francese. Una “leggenda” vuole che la futura contessa carbonara stava organizzando una congiura di donne per assassinarlo. Sensibile, mite ma anche ostinata. A 6 anni, morta la madre solo 28enne, risposatosi il padre, si chiude nel mutismo. Fatta educare dalle suore, a 15 anni rifiuta il duca de Pasquier, che la voleva in moglie. Al roboante ufficiale francese preferisce i suoi libri di storia e letteratura. Finché a 18 anni, recitando intensamente, una sera del novembre 1806, ad una recita di beneficenza nel Reale Orfanotrofio femminile, colpisce il cuore dell’allora 21enne Federico Confalonieri il quale credeva che l’unica che avrebbe sposato sarebbe stata la causa del progresso italico. E invece, un anno dopo, impalma la ventenne Teresa. Che, colta e raffinata, aiuterà a diventare una delle maggiori personalità della Restaurazione italiana, collettore delle istanze progressiste e dell’idea dell’unità italica, un uomo dal carattere certo complesso (nel romanzo “Cent’anni” di Giuseppe Rovani Confalonieri è il presuntuoso conte Aquila che obbliga il figlio di 4 anni, rachitico, ad una dura ginnastica durante la quale il piccolo cade, morendo; ma un’altra versione dà il bimbo morto per una caduta mentre i genitori lo trastullavano lanciandoselo a vicenda). Dopo il fallimento della missione a Parigi, Federico scrive a Teresa: “Stiano gli Italiani uniti, non presentino che un sol voto, si dimentichino quel fatale e malinteso patriottismo di città per non servire che al patriottismo di Nazione”. Da qui la sua decisione di partire alla volta di Londra allo scopo di riuscire a strappare qualche margine di autonomia, puntando sull’appoggio inglese che nel 1812 aveva permesso alla Sicilia di strappare la costituzione al re borbonico. Non sono quindi un caso quegli applausi alla Scala dei patrizi milanesi, amici dei Confalonieri, in quel maggio del 1824, all’inglese Mac Farlene e l’entusiasta annuncio fatto da Teresa in una lettera al marito: “A teatro domina il partito degli inglesi”.

Affermatosi il dominio austriaco in Lombardia per la coppia si aprono gli anni della cospirazione: dei viaggi con alle calcagna le spie di Metternich, dei legami con le società carbonare del sud Italia ed i liberali inglesi e francesi, del loro palco alla Scala vero e proprio pensatoio progressista nel quale si incontravano gli esponenti più attivi del liberalismo lombardo e nel quale si potevano incredibilmente trovare fianco a fianco Giulio Strassoldo, governatore della Lombardia e il carbonaro Giovanni Berchet, il conte Bubna di Littilz, comandante generale nella Lombardia, e Gino Capponi. Gli anni in cui il loro salotto diventa ritrovo della setta segreta dei Federati che ordiva la rivolta a Milano e progettava un governo lombardo-veneto federato al regno sabaudo. Qui, nel 1821, si riuniscono i patrioti che si dicono certi dell’appoggio di Carlo Alberto di Savoia, che lo stesso reggente ha assicurato di persona a Giorgio Pallavicino e Gaetano Castiglia, amici dei Confalonieri. Qui Alessandro Manzoni sente le dichiarazioni entusiaste sull’erede al trono prossimo a varcare il Ticino per liberare la Lombardia e che gli ispirano la celebre ode “Marzo 1821”: “Vòlti i guardi al varcato Ticino, tutti assorti nel novo destino” della nazione “una d'arme, di lingua, d'altare, di memorie, di sangue, di cor”. Ma, dopo i moti di marzo, Carlo Alberto fa marcia indietro, l’ode deve aspettare il 1848 per essere pubblicata, iniziano le ondate di arresti, il Palazzo del Capitano di Milano per tre anni vede passare in catene tutti i maggiori carbonari del milanese: Pallavicino, Castiglia, Andryane, Arese, Corsieri, Tonelli. Ed anche Confalonieri. Pur avvertito da Teresa di un suo prossimo arresto, rivelatole da Bubna in persona, il conte inspiegabilmente rimanda la fuga. E, quando ormai si ritrova le guardie sul portone, la sera del 13 dicembre 1821, scopre che il passaggio segreto, attraverso il quale tenta di fuggire, è stato murato non si sa da chi. Paga così il suo sogno di libertà con 15 anni allo Spielberg. E per Teresa inizia il calvario che la condurrà alla precoce morte, consunta dal dolore. Un dramma umano che vive da vicino l’amico Alessandro Manzoni e che gli ispira il personaggio della regina Ermengarda nell'Adelchi del 1822 (“Sparsa le trecce morbide sull’affannoso petto…”).

L’imperatore fa condannare a morte Confalonieri e rifiuta più volte di ricevere Teresa accorsa a Vienna per chiedere la grazia. Lei non si dà per vinta e riesce ad incontrare la giovane imperatrice, Carolina Augusta di Baviera. La delicata figlia del re di Baviera, quarta moglie di Francesco I, non ha ancora conosciuto il vero amore. Alle spalle un matrimonio, giovanissima, con il principe Guglielmo di Wurttemberg, che l’ha sposata solo per non essere costretto a sposare una parente del Bonaparte, l’ha odiata per sei anni e ne ha poi divorziato. Anche da imperatrice vive infelice.
Costretta al continuo confronto con la defunta Maria Teresa che al regale marito aveva dato 12 figli, lei nessuno. La intenerisce molto vedere come Teresa si battesse per il suo uomo. E forse la invidia anche. Lei, l’imperatrice, che passa le sue ore nella sterile vita di corte si trovava di fronte una donna che crede nel progresso ed agisce di conseguenza. Il marito, diventato affiliato alla massoneria inglese grazie al duca di Sussex, finanzia il “Conciliatore”, periodico liberale sui quali firmano i maggiori pensatori del tempo - Manzoni, Pellico, Cattaneo, Berchet, Ressi, di Breme, Manzoni, Pecchio, Romagnosi, Gioia, Borsieri, Ermes Visconti -, deciso da unire pensiero romantico e illuministico e concretizzando anche idee riformiste come quelle della navigazione a vapore del Po e dell’illuminazione pubblica (il bisettimanale uscì tra 1818 e 1819 per essere soppresso dalla censura austriaca). E Teresa fonda a Milano le prime scuole italiane ispirate ai nuovi metodi pedagogici lancasteriani basati sull’insegnamento mutuo. In esse i ragazzi più brillanti aiutano quelli meno capaci, permettendo quindi anche alle classi meno abbienti di accedere ad una istruzione superiore. Nel 1820, proprio quando Teresa si prepara ad aprire una di queste scuole solo per ragazze, tutti gli istituti vengono chiusi (ma ci penserà il fratello Gabrio a risarcirla port-mortem: lui fu il primo ministro dell’Istruzione dell’Italia unita e ideatore della legge che organizzò la scuola italiana fino al 1923). Non importa che Teresa, come ben sa l’imperatrice, è una “giardiniera”, fulcro - insieme alle amiche Bianca Milesi, Matilde Viscontini e Maria Frecavalli - del nucleo milanese della carboneria femminile. Non importa che in un rapporto segreto della polizia si riferisca che, nel suo salotto, lei abbia espresso il desiderio di uccidere un generale austriaco con il suo pugnale, che tutte le giardiniere portano infilato nella giarrettiera, sentenziando: “Io voglio perpetuare il mio nome nel sangue di codesto generale d’un governo odiato, e dare alla posterità un esemplare segno di vero patriottismo”. L’imperatrice sa bene quali siano i metodi della polizia. L’inquisitore Antonio Salvotti, l’“aguzzino” che sta facendo condannare tutti i cospiratori dei moti del lombardo-veneto, ha mostrato a Teresa le lettere scritte al marito da una sua amante, per convincerla a confessare. Ma lei non ha parlato.

L’imperatrice cercherà di intercedere per Teresa che intanto continua a chiedere un incontro con Francesco I. Nel gennaio 1823 è sfibrata. Ma è piena di speranze. Dopo un anno che non vede il marito gli scrive: “Ora la lusinga di presto riabbracciarti mi dà nuova vita”. Quando finalmente ottiene udienza, nel Natale 1823, l’imperatore la gelerà dicendole: “Contessa, quanto io tenga della virtù di lei e dell’affetto che mostra per suo marito, ho voluto attestaglielo coll’annunziarle io di mia propria bocca che ho confermato la sentenza di sua morte, perché l’impero ha bisogno di esempi”. Teresa smuove la Milano che conta raccogliendo una petizione con 300 firme di personalità, tra cui Manzoni, il vescovo Nava e l’arcivescovo Gaisruk. La consegna il 6 gennaio 1824, poco prima della sentenza, il fratello 25enne di Teresa, Gabrio, che la accompagna nei suoi disperati pellegrinaggi viennesi. Malgrado la giovane età, dimostra una forte tempra della quale darà prova, già podestà di Milano, sulle barricate delle Cinque Giornate del 1848, insieme al fratello Camillo (passato alla storia per aver salvato dal linciaggio la contessa di Spaur, moglie del prefetto - che 9 mesi dopo potrà così a sua volta salvare Pio IX in fuga, nascondendolo nella sua carrozza - ed anche per essere il nonno del Camillo Casati che diede alla casata il titolo di Stampa di Soncino e sposò Luisa Amman, la leggendaria marchesa Casati, mito della Belle époque, amante di D’Annunzio, musa di Cocteau, estrosa dama dai ghepardi al guinzaglio e dai pitoni al collo).

In extremis l’imperatore commuta la condanna a morte di Federico nel carcere duro a vita. L’ultima volta che Teresa lo vede è il 4 febbraio 1824, quando da Brno viene condotto nell’inferno dello Spielberg, dove era stati già rinchiusi gli amici Pellico e Maroncelli e vi arrivano anche altri amici dei Confalonieri: Andryane, Borsieri, Pallavicino, Castilla, Tonelli, Arese. Il 4 marzo scrive a Teresa: “Così, all’età di trentanove anni, si chiude per me la vivente scena del mondo”. Lei si vede rifiutare dall’imperatore il permesso di vivere vicino alla prigione del marito ma non quello di scrivergli. E, insieme agli innumerevoli messaggi d’amore, gli invia dei piani di evasioni scritti in codice. Nel 1826 un carceriere è pronto a far fuggire il conte. Ma lui rifiuta di evadere, temendo che possa costare la vita ad Andryane, suo compagno di cella.

A sei anni dall’imprigionamento di Federico, nel febbraio 1830, Teresa, ormai colpita da un male incurabile, invia all’imperatore una lettera scritta per lei da Manzoni: “Alla misericordia di Vostra maestà io porgo una preghiera: che mi sia concesso di terminare i miei giorni accanto a quello che la Provvidenza mi ha dato per compagno. La morte mi sarà meno dolorosa quando, veggendo il mio sposo presso il mio letto, potrò riguardare come compiuta la mia missione, che era d’impetrarne da Dio e da V.M. la liberazione”. L’imperatore non le risponde neanche e dopo pochi mesi, il 26 settembre, Teresa muore, a 43 anni. Non ha mai accennato al marito della sua malattia ed ha imposto che, anche dopo la sua morte, si continuino ad inviargli in carcere le missive d’amore che lei ha scritto a profusione. Morta ormai da 4 mesi Federico, ignaro, ancora le scrive: “Ricordati anima mia che la tua conservazione è la mia vita”. Un mese dopo si vede entrare nella cella un commissario che gli comunica: “Numero quattordici: Sua Maestà L’imperatore si degna di farvi sapere che vostra moglie è morta”.

Federico viene “graziato” nel 1835 con la deportazione in America. Lo accompagna una lettera di addio di Manzoni con la promessa di pregare per lui, afflitto dalla “perdita irreparabile” di Teresa. Con una amnistia ritorna due anni dopo a Milano, malato, e finalmente può recarsi sulla tomba della moglie, sepolta sotto una lapide dedicata sempre da Manzoni all’amica “forte e soave”: “Partecipò con l’animo quanto ad opera e ad animo umano è conceduto, consunta ma non vinta dal cordoglio, morì sperando nel Signore degli afflitti”. Presto il vedovo si mette al fianco una nuova moglie, l’irlandese Sofia O'Farrel, dama di corte in Danimarca. Per dimostrare quanto sia devota alla memoria di Teresa porta al polso un braccialetto fatto con i capelli della defunta, che Federico le ha fatto promettere di indossare “qual reliquia di tutta la vita”. Sofia, quando il conte muore, nel 1846, lo fa seppellire accanto a Teresa in quello che oggi, a Muggiò, è il monumentale mausoleo dei Casati. Nel 1934 il film “Teresa Confalonieri” di Guido Brignone, protagonista Marta Abba, vincerà il massimo premio, la Coppa Mussolini, “per la nobiltà e la passione con le quali viene esaltata la purissima figura dell'eroina, alta e generosa di donna italiana”.

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