23 febbraio 2011

Enrichetta Caracciolo: monaca per forza, garibaldina per vocazione


Il 7 settembre 1860, nel Duomo di Napoli, mentre Garibaldi assisteva al Te Deum di ringraziamento per la fuga di Francesco II, una suora benedettina deponeva su un altare il suo nero velo di monaca. Quella suora, che era rimasta quasi schiacciata dalla folla nel tentativo di essere la prima donna di Napoli a stringere la mano al Generale, si chiamava Enrichetta Caracciolo.
Enrichetta nacque a Napoli nel 1821 da don Fabio Caracciolo di Forino, maresciallo dell’esercito napoletano, e da Teresa Cutelli, gentildonna palermitana. Era la quinta di sette figlie femmine, e questo segnò il suo destino, in una famiglia che per generazioni aveva monacato tutte le figlie femmine tranne le primogenite, ed in un’epoca in cui un articolo del codice civile consentiva espressamente ai genitori di rinchiudere le proprie figlie in istituti religiosi, a qualsiasi età. Nonostante la generazione di Enrichetta fosse la prima in cui questa prassi si incrinava (più di una delle sue sorelle si sposò), una serie di circostanze fecero sì che lei fosse destinata ad una monacazione forzata.

Alla morte del padre Enrichetta fu affidata, ancora adolescente, alla tutela della madre, che, avendo deciso di risposarsi, a sua insaputa iniziò le pratiche per introdurla nel monastero di San Gregorio Armeno di Napoli, dove già si trovavano due zie paterne della fanciulla. Nel 1841 Enrichetta pronunciò i voti solenni.

Colta e amante degli studi, nel convento si scontrò con la grettezza e la diffidenza di monache ignoranti, per lo più analfabete. Si procurò la fama di rivoluzionaria comprando senza nascondersi i giornali dell’opposizione, che leggeva ad alta voce nel convento, approfittando della libertà di stampa concessa dal papa Pio IX. E proprio incoraggiata dal clima di speranza nel Papa liberale, nel 1846 presentò al pontefice la prima di una serie di istanze per ottenere lo scioglimento dai voti, o almeno una dispensa temporanea per motivi di salute. Ma l’arcivescovo di Napoli, Riario Sforza, le rivolse un’accanita persecuzione personale, negandole il suo nulla osta, perfino contro il parere del Papa.

Durante i moti rivoluzionari del 1848, mentre le monache pregavano per lo sterminio dei malvagi, Enrichetta innalzava taciti voti all’Onnipossente per la caduta della tirannide e pel trionfo della nazione, ma allo scatenarsi della repressione borbonica, temendo ripercussioni per sé e la sua famiglia, preferì dare fuoco alle sue memorie. Nel frattempo riuscì ad ottenere almeno l’autorizzazione a trasferirsi nel Conservatorio di Costantinopoli. Parzialmente sconfitto, Riario Sforza le impose di lasciare in convento le argenterie e le pietre preziose ereditate dalle zie monache.

Nel Conservatorio di Costantinopoli, però, il partito riunito intorno alla badessa era totalmente ligio alla Curia e ai Borbone, ed Enrichetta subì una drastica censura riguardo alle sue letture, all’esecuzione al piano dei brani di Rossini ed alla possibilità di scrivere lettere o tenere un diario. Enrichetta continuò lo stesso ad inviare lettere, nascondendole nel cesto della biancheria sporca con la complicità di una domestica, ma alcuni suoi scritti, sequestrati e pervenuti nelle mani di Riario Sforza, vennero da lui inviati a Pio IX affinché non cedesse alle reiterate suppliche di Teresa Cutelli (ora separata dal marito e riconciliata con la figlia) per la libertà di Enrichetta. Solo nel 1849, grazie ai disturbi nervosi di cui soffriva, ottenne finalmente il permesso di uscire con la madre per curarsi con i bagni. Riario Sforza, tuttavia, continuò a perseguitarla, valendosi della sua influenza presso Ferdinando II. Le negò una nuova licenza e le sequestrò l’assegno costituito dai frutti della sua dote di monaca, costringendola a vivere della carità dei parenti.

Nel giugno 1851 Enrichetta, con la complicità della madre, lasciò il Conservatorio di Costantinopoli e si recò a Capua, a casa di una sua sorella, sotto la protezione del vescovo Serra di Cassano, ma il suo protettore morì pochi giorni dopo. Arrestata e condotta nel ritiro di Mondragone, rifiutò il cibo e tentò il suicidio, colpendosi al petto con un pugnale, riuscendo però solo a ferirsi. Sopravvisse, e superò un intero anno di isolamento, nel quale le fu impedito di ricevere i parenti e di lasciare il ritiro, persino per visitare la madre morente.

Dopo la scomparsa della madre, mediante l’intercessione di una zia, Enrichetta ottenne dalla Sacra Congregazione dei Vescovi il permesso di recarsi a Castellammare per la cura dei bagni. Fu uno stratagemma attraverso il quale la Congregazione, fortemente critica verso il comportamento dell’arcivescovo di Napoli, mirava a liberare Enrichetta dal suo persecutore. A Castellammare godette di una relativa libertà, anche se ormai era entrata a tutti gli effetti nelle reti cospirative. Per sfuggire alla sorveglianza della Curia e della polizia borbonica cambiò in sei anni diciotto abitazioni e trentadue donne di servizio.

Giacinto Gigante, 1863Quando Garibaldi sbarcò in Sicilia coi Mille, Enrichetta tornò clandestinamente a Napoli, affidandosi a persone di sua fiducia per depistare i poliziotti in borghese messi alle sue costole e, come già detto, era nel Duomo ad accogliere il Generale il giorno del suo ingresso a Napoli. La mia storia finisce in questo giorno, che per l’Italia è giorno di nuova creazione scrisse in una lettera ad un amico. Pochi mesi dopo avere abbandonato i voti sposò col rito evangelico il patriota napoletano di origine tedesca Giovanni Greuther.

Nel 1864 pubblicò le sue memorie presso la società editrice Barbera di Firenze col titolo Misteri del chiostro napoletano. Il libro venne accolto con grande interesse e ripubblicato ben otto volte negli anni successivi. Fu tradotto in varie lingue e venne molto apprezzato da critici e autori dell’epoca, tra cui Alessandro Manzoni (che nella storia di Enrichetta trovò molti punti in comune con il personaggio di Gertrude) e Luigi Settembrini. Garibaldi le scrisse, invece, per ringraziarla di alcuni bellissimi sonetti. La pubblicazione del libro le valse, però, non solo una grande notorietà, ma anche la scomunica da parte delle autorità ecclesiastiche, che interpretarono l’esposizione delle ipocrisie nascoste all’interno delle mura dei conventi come un attacco calcolato alla Chiesa Cattolica.

Nel 1866 pubblicò Un delitto impunito: fatto storico del 1838, che narra l’assassinio di un’educanda da parte di un sacerdote respinto dalla fanciulla, e nel 1883 Un episodio dei misteri del Chiostro Napolitano, un dramma in cinque atti tratto dalle sue memorie. Fu corrispondente di giornali politici, tra cui La rivista partenopea di Napoli, La Tribuna di Salerno e Il Nomade di Palermo. In occasione della terza guerra d’indipendenza, pubblicò un Proclama alla Donna Italiana in cui esortava le donne a sostenere la causa nazionale, e fece parte, con la sorella Giulia Cigala Caracciolo, del Comitato femminile napoletano di sostegno al disegno di legge di Salvatore Morelli per i diritti femminili.

Nonostante la sua notorietà e la sua infaticabile attività, Enrichetta non ebbe alcun riconoscimento ufficiale dal governo italiano. Garibaldi, partendo per l’assedio di Capua, non fece in tempo a firmare il decreto con cui aveva intenzione di nominarla ispettrice agli educandati di Napoli. De Sanctis, dopo averle promesso un incarico, la dimenticò. Gli oggetti di sua proprietà che Riario Sforza le aveva sequestrato non furono mai ritrovati. A settant’anni, quando Francesco Sciarelli ne scrisse la biografia, Enrichetta viveva, vedova, ignorata dai suoi concittadini, modesta e solitaria. È ignota la data della morte.

Le Memorie di Enrichetta Caracciolo: I. L’infanzia.

Non per menar vanto della chiarezza de’ miei natali, ma per debito di narratore, e per fare maggiormente conoscere in quali modi veniva dal governo borbonico avvilita l’indigena aristocrazia, senza che le classi inferiori ne riportassero alcun vantaggio, dico che una delle prime e più cospicue famiglie di Napoli è la Caracciolo, alla quale mi onoro di appartenere.
Mio padre, secondogenito di Gennaro Caracciolo, principe di Forino, nacque nel 1764. Abbracciò la carriera delle armi (ben tenue e scarso, per la legge allor vigente dei fedecommissi, essendo l’appannaggio de’ secondi nati), e sposò di quarant’anni una giovanetta palermitana, che ne contava appena quattordici. Teresa Cutelli (così chiamavasi la donzella) mi metteva alla luce il giorno 17 gennaio 1821, dopo quattro altre femmine, e mi dava il nome d’Enrichetta, nome d’una monaca zia paterna: una delle innumerabili offerte, che all’ordine di san Benedetto consacrò la mia stirpe. Nacqui in Napoli nel palazzo di mia famiglia, poche settimane prima che l’Italia e la Grecia, questi due emisferi dell’antica civiltà, rialzassero la fronte a desiderii d’indipendenza; e non aveva che tre soli mesi, allorché dalla famiglia fui condotta a Bari, essendo stato mio padre (che giunto era allora al grado di maresciallo) chiamato per sovrana ordinanza al comando di quella provincia.

Rammento, come se fosse oggi stesso, un fatto accadutomi in quella città dopo d’aver compito il mio terzo anno.
Invitata la mia famiglia ad una festa di ballo in maschera, volle condurmivi vestita da contadinella. Di là a poco m’assaliva il sonno; perloché mia madre, avvoltami in uno scialle, commetteva al domestico di ricondurmi alla nostra abitazione, ed ivi consegnarmi alla fantesca. Frattanto la danza, che ferveva, durò lunga pezza senza interruzione. Non appena terminata, mia madre chiese del servo, per dimandargli se, destata dal sonno, avessi pianto per la via. Il domestico non era al suo posto, né alcuno l’avea veduto ritornare.

Conturbati i miei parenti, mandarono immantinente in casa per sapere ciò che fosse stato di me e del famiglio: ma fu detto dalla fantesca non essere stata punto a lei consegnata la bambina: questo aumentò la loro angustia. Vola personalmente mio padre in casa: chiede, richiede palpitante; e la donna ripete sempre di non aver veduto rientrare alcuno. Questo messaggio fa giungere al colmo l’agitazione della famiglia, la quale, seguita da parenti ed amici, lascia all’istante la festa, e si mette a cercar di me. Fu un investigare pieno di trambusto, un andare e venire di molte volte per la stessa via, e sempre indarno. Decisi alfine i miei genitori di cangiar strada, dopo l’aver vagato per molte ore, videro una bettola semiaperta, dove lo schiamazzo della gente indicava la gozzoviglia. Spinto l’uscio, mi trovarono stesa sul piano di due sedie accostate, ed immersa nel più placido sonno, mentre il famiglio, ubbriaco, clamorosamente bussavasi con altri compagni di stravizzo. La precipitazione con cui mia madre ricuperò la sua diletta proprietà, mi ridestò. La scena inconsueta dove mi trovai, le grida di mio padre, che, preso per la gola il malvagio servo, lo fece stramazzare bocconi, scolpirono profondamente quel risvegliamento nella mia memoria. È questa la prima e più antica rimembranza della mia vita.

Dopo quattr’anni di dimora in Bari, mio padre richiamato per telegrafo a Napoli partì sull’istante. I Borboni solevano agire con quel misterioso terrorismo, che formidabile lasciò scritto nella storia il nome del Consiglio de’ Dieci. Senza saperne la ragione, venne dall’ingiusto governo passato alla quarta classe; né senza fatica finalmente giunse a penetrare d’essere stato incolpato di non so quale fatto politico.
Mandò ad avvertire mia madre d’apparecchiarsi prontamente, e di portarsi in Napoli colla famiglia, facendosi accompagnare nel viaggio da un amico di lui. Messa adunque in assetto ogni cosa, prendemmo la carrozza di posta, affine di giungere più presto alla capitale.

Eravamo al terzo giorno del viaggio, allorché mia madre s’accorse, che un pallore cadaverico copriva il volto dell’uffiziale datole per compagnia da mio padre. Gli domandò che cosa avesse; rispose sentirsi molto male. Dopo pochi istanti, l’uffiziale cacciò il capo fuori dello sportello, ed orribile fu lo spavento di noi tutti, allorché vedemmo l’infelice vomitare un torrente di sangue.
In tale stato deplorabile, e col pericolo che da un istante all’altro potesse l’infermo rimaner esangue, ci convenne proseguire il cammino, finché un villaggio qualunque si fosse presentato, dove ci venisse fatto di prestargli l’aiuto che reclamava il suo stato. Inutili riuscirono i rimedi e le cure dell’arte; lo sventurato non vide il tramonto di quel dì.

Questa catastrofe oppresse gli spiriti nostri. Continuammo il viaggio nella mestizia, ed io, benché tuttora fanciullina, piansi più volte per compassione.
Giunti in Napoli, ritrovammo il capo di famiglia afflittissimo del torto ricevuto. Fummo consigliati dai più d’implorare la giustizia sovrana: e però tutti uniti ci portammo dal re. Ma Francesco I che allor regnava, non meno odioso e spietato di suo padre, si mostrò inesorabile; per il che fummo ridotti ad una condizione non lontana dall’indigenza. Numerosa com’era la famiglia, il soldo della quarta classe poteva appena bastarle ai più urgenti bisogni del vivere. Tre anni interi passammo nella ristrettezza, soffrimmo tre lunghi anni di disagio, finché, riabilitato e ripristinato alla prima classe, venne mio padre destinato al comando della provincia di Reggio nella Calabria.

Noleggiato pertanto un brigantino inglese, ed imbarcatavi la roba, attendevamo l’avviso della partenza. Era il giorno 15 ottobre dell’anno 1827. Una pioggia dirotta, una fitta caligine oscuravano il dì: sembrava già notte prima dell’occaso. Determinato di partire, nonostante l’aspetto non propizio del tempo, il capitano ci manda a chiamare a bordo. I miei genitori fanno al messo delle proteste; ma l’ordine dell’inglese era positivo, né ammetteva commenti intorno alle condizioni dell’atmosfera. Fummo adunque obbligati di metterci sul mare, mentre l’acqua cadeva a ribocco, e i flutti d’ogni intorno infuriavano.
Parve strana a’ miei genitori l’ostinazione del capitano nel voler salpare con siffatta burrasca; ma questi fece lor vedere, segnato sopra una carta, il giro di diversi viaggi, che doveva impreteribilmente eseguire, per poi trovarsi il primo giorno dell’anno in Londra, dove una giovinetta, da lui teneramente amata, l’attendeva; e soggiunse che tutti gli elementi scatenati contro il brigantino non sarebbero bastati a sconcertare il suo itinerario: la sola morte l’avrebbe impedito d’impalmare la donna adorata la sera del capo d’anno. A questa spiegazione cavalleresca s’alternarono sui volto di mio padre il dispetto e l’ilarità: rise, perché gli sembrò strano che un anglo-sassone favellasse con tanto calore della sua passione: s’indispettì, vedendo quell’irragionevole marinaio intento, per puro capriccio, a sfidare gli elementi. Ma non v’era rimedio. Già i nostri bagagli stavano a bordo: volendo o non volendo, conveniva piegarsi all’arbitrio del capitano.

Io non contava ancora sette anni, ma da’ segni che mio padre e mia madre scambiavansi capiva trovarsi essi costernati dal temporale, ormai ingrossato di vento gagliardo, di grandine, di fulmini. Incominciai a piangere in coro colle sorelle, senza lasciarmi quetare dalle carezze de’ genitori e da’ conforti del capitano, bramoso di farci credere, in una non so quale mistura d’eterogenei vocaboli, che non si correva pericolo alcuno.

Non sì tosto esciti del golfo, un’ondata impetuosissima fece piegare il legno sovra d’un fianco. I nostri bagagli, ch’erano pur molti, e trovavansi ammonticchiati gli uni sugli altri lungo la coperta, staccandosi con orrendo fracasso, rotolarono dal lato dove la pendenza li trascinava. Fu quello un momento veramente critico! Senza la celere manovra del britanno equipaggio, che ricollocò ed assicurò ad anelli di ferro casse, bauli e colli, il bastimento avrebbe perduto l’equilibrio.
Il viaggio, per buona fortuna, durò poco. La sera del secondo giorno giungemmo a Messina. Restammo per molte ore col capo vacillante, e solamente dopo esserci ristorati con prolungato sonno, ci sentimmo restituiti in salute.

La mattina seguente un altro brigantino arrivava nel porto di Messina. Incoraggiato dalla nostra partenza, avea voluto seguirci; ma, meno avventuroso di noi, avea dovuto buttare gran parte del carico nel mare, e recava inoltre una donna, morta dallo spavento e dal mal di mare.
A questa notizia, ringraziammo il Signore pel pericolo superato, ed aspettammo che il tempo si fosse ben rasserenato per valicare il Faro, e recarci in Reggio.

Tre giorni dopo, il sole spuntava nello splendore consueto del cielo siculo, ed il mare, perfettamente abbonacciato, ci riprometteva un prospero tragitto. Giungemmo a Reggio in poche ore di traversata, e cordialissima fu l’accoglienza usataci dagli abitanti in riva al mare.
Quattro carrozze menarono la nostra famiglia al grandioso palazzo destinato a mio padre. L’amenità del luogo, l’allegra comitiva, la calabra ospitalità ci fecero in pochi giorni dimenticare e i disagi sofferti per tre anni nella capitale, ed il sibilo sinistro della tempesta.

Facili a dissiparsi son le tracce che imprime la sventura nella puerile età.
Presentiva io forse allora le tempeste e i guai che m’aspettavano?





Le Memorie di Enrichetta Caracciolo: II. I primi amori

Otto anni scorsero di vita uniforme, e non punto alterata da rilevanti vicende. I trastulli dell’infanzia, le giornaliere lezioni occupavano la giornata, chiusa ordinariamente al vespro da una scelta società di militari e di calabri, fra’ quali v’erano pur alcuni fregiati di letteraria celebrità. Nel corso di questi otto anni le mie tre prime sorelle passarono a marito, sicché rimasi in famiglia con un’altra, a me maggiore d’un anno solo. Giuseppina, bella ed infelice donzella, aveva le forme e il cuore degli angeli... Essa non è più!


Mal ferma sino a questo punto s’era dimostrata la mia salute. Nervosa per temperamento, pallida ognora nel volto, di complessione gracile, dotata di soverchia e però funesta sensibilità, io non prometteva di giungere alle proporzioni d’un organismo fortemente costituito. Entrata però che fui nel quattordicesimo anno, le mie forme presero uno sviluppo inaspettato, al pallore succedette il vermiglio, che sembrava maggiore di quello fosse in effetto, pel colore bruno della mia carnagione. Disgraziatamente (se l’amore può chiamarsi disgrazia), allo sviluppo del corpo concorse precoce pur quello del cuore. Sparì d’un tratto la serenità imperturbata della puerizia; non più il riconfortatore balsamo del sonno. Mi sentii un vuoto nell’animo, vuoto sommamente penoso, che bramai di riempire coll’ottenimento d’un oggetto vago, indistinto, non per anco da me stessa determinato. Bastava uno sguardo, un detto per conturbarmi la misura de’ palpiti, per farmi credere d’avere ispirato un sentimento simile a quello che aveva provato io stessa. Sopravveniva poscia il disinganno; quello sguardo era stato lanciato dal caso, quella parola era stata pronunziata per mera gentilezza, senza che il cuore vi avesse avuto parte alcuna. Rigorosa d’altronde era l’educazione che a noi dava la madre. Essa ci misurava l’ora che, per godere del pubblico passeggio, eraci lecito di trattenerci sul verone; la benché minima trasgressione poi era punita con severo castigo.

Ma chi non sa quanto ribelli a’ castighi siano le aspirazioni del cuore a quattordici anni?
«…Ben sa il ver chi l’impara,
Com’ho fatt’io con mio grave dolore!»

Spirò appunto nel verone l’ultimo de’ miei giorni allegri.
Nella folla de’ vagheggini, che sfilavano al di sotto, distinsi un avvenente giovane, intento più d’ogni altro a tributarmi sguardi d’ammirazione. Fissarlo, arrossire, balzarmi il seno, fu un tempo solo. Più volte nello stesso giorno egli passò e ripassò. La soave languidezza delle sue pupille, il suo incedere pacato, la sua statura alta anzi che no, la sveltezza delle proporzioni mi convinsero essere quello, e non altro, l’uomo de’ miei sogni dorati, l’incarnazione delle mie aspirazioni.
Mentre si allontanava, chiamai la cameriera, e le domandai se lo conosceva di persona, o di nome: quella, nativa di Reggio, rispose conoscerlo appieno.
Chiamavasi Carlo***, ed era il primogenito di una famiglia, non molto ricca, ma sufficientemente agiata.

L’immagine dell’avvenente persona presentavasi ognora alla mia mente, rivestita di forme ideali. Le ore della notte mi sembrarono eterne, il giorno seguente lunghissimo, il lavoro noioso, le lezioni fastidiose; desiderava con ansietà veder giunger l’ora nella quale mi sarebbe dato il permesso d’uscir sul verone favorito, per rivedere l’oggetto, che dal giorno innanzi sovraneggiava tutti i miei pensieri.
L’ora finalmente arrivò. Corsi al balcone; indicibile fu il mio contento nel vederlo fermato sotto lo stesso tetto. S’incontrarono i nostri occhi in un lampo medesimo: diventai di porpora. Carlo s’avvide del mio imbarazzo; un leggero sorriso sfiorò le sue labbra, e modestamente avvicinando la mano al cappello, mi salutò. Quale temerità da parte mia! A quel saluto corrisposi tutta tremante, commossa, confusa: io passava dall’impersonalità della fanciullezza alla coscienza dell’espansiva individualità.

Da quel momento non rinvenni più pace; carissimo m’era però l’averla smarrita. Le sofferenze dell’amore, specialmente del primo, sono incantevoli: un sol momento di contento compensa mille dispiaceri sofferti. Quanti segreti conforti non mi procuravano allora le malinconiche note del Petrarca, che nel silenzio della notte io divorava con avidità! Con quali tenere ispirazioni non temprarono l’acerbità delle mie pene i molti affetti della Gerusalemme liberata! Carlo ripassava ogni giorno; ma pochi minuti di ritardo nelle ore che ci era dato vederci da lontano; ma la pioggia che qualche volta me lo strappava; ma l’ordine di mia madre di accompagnarla in qualche visita, erano per me occasioni di grave afflizione. Vederlo e corrispondere al suo garbato saluto, scambiare seco lui, non fosse che una sola occhiata, mi facevano mettere tutto in dimenticanza, mi ricolmavano d’ineffabile beatitudine.

Trascorsero così molti mesi, ne’ quali la comunicazione dell’amor nostro non oltrepassò i limiti degli sguardi e del reciproco saluto. Io amava quel giovane con poesia limpida, pura, cristallina; con poesia che sentiva infusa in tutto l’essere mio, sebbene non potessi né sapessi esprimerla: egli si mostrava ognora premurosissimo di vedermi, benché non si sollecitasse punto di mandare a’ miei genitori ambasciata di matrimonio, anzi paresse propenso di nascondere loro l’innocente, ma pur reale, amorosa nostra corrispondenza.

Quasi di rimpetto alla nostra abitazione eravi un palazzo, il cui primo piano trovavasi disabitato da lungo tempo. Una mattina udii fermarsi un carretto a quella porta. Alzai le cortine della finestra, e lo vidi carico di mobilia, che da’ facchini era portata in quell’appartamento. Vi ritornai, animata da non so quale lusinghiero presentimento, e oh, quale sorpresa! vidi Carlo al balcone di quella casa, in atto di guardare la mia. Lui stesso! pensai: lascia egli dunque la sua famiglia, per venire più vicino a me...!
Il mio volto apparve da’ cristalli: Carlo mi scoprì, mi sorrise, mi salutò. Fuggii per timore che mia madre sopravvenisse, ma il contento manifestavasi in tutte le mie azioni, appariva nell’atmosfera stessa ch’io respirava. Il dopopranzo, secondo l’usato, mi posi al balcone: Carlo pure stava al suo. Egli si ritrasse in fondo alla camera, e con un gesto espressivo mi domandò s’io l’amava; fissandolo, sorridendo ed abbassando il capo, io gli risposi di sì.

La sera dello stesso giorno, essendosi riunita la società d’amici in casa nostra, da taluni giovani, che discorrevano a me d’accanto, intesi pronunziare il nome a me caro. Tesi l’orecchio, ed ascoltai. Dicevan essi che si era diviso dalla famiglia per istarsene tutto solo colla sposa... La parola sposa mi colpì; ma per quanta attenzione usassi, non mi venne fatto raccogliere altro del loro discorso.

Il mio affetto aumentò col vederlo più spesso, perché, evitando la vigilanza della madre, correva più volte al giorno alla finestra, viemaggiormente eccitata dalla speranza che la sposa, di cui parlavasi, non fosse altra che io stessa.

Una domenica mia madre uscì di buon mattino. Aprii la solita finestra, e sedutami accanto ad essa, vagheggiava mestamente Carlo, che agli occhi miei appariva più seducente del consueto; egli del pari, postosi vicino alla sua, mi faceva de’ segni che mi sembravano dimostrazioni del più vivo affetto. Nell’atto di contemplarlo, piena della lusinga deliziosa che il cielo non l’avesse creato per altra donna che per me, quanti e quali progetti di futura felicità mi formava! Nel cuor della donzella innamorata havvi giorno più caldamente sospirato di quello delle nozze? Ciò che in religione ed in filosofia suona la voce Avvenire, è all’orecchio dell’appassionata zittella contenuto nella mistica voce Matrimonio.

Viene la cameriera tutta ansante, e mi dice in fretta:
«Signorina, che fate? Ritiratevi dalla finestra!»
«Perché?» le domandai sbigottita.
«Voi amate alla follia quel giovanastro, ed egli fra giorni sposerà un’altra».
«T’inganni» le dissi, coperta da mortale pallore... «T’inganni! Chi può averti data a credere tale fanfaluca?»

E, vòlta verso di lui, gli domandai, col gesto, se m’amava.
Rispose con trasporto, e ripetutamente, di sì.
«Lo vedi?» esclamai: «Vedi quanto t’inganni?»
«No, non m’inganno. Siete ancora troppo fanciulla per comprendere dove arrivano la malvagità e la simulazione degli uomini. È tanto certo che in men d’un mese quell’ipocrita sposerà altra donna, quanto è certo che oggi è giorno di domenica. Mia madre ha parlato con lui stesso. Gli ha detto: ‘Io credeva, signor Carlo, che la sposa esser dovesse la giovine Caracciolo!’ ed egli ha risposto: ‘La Caracciolo è buona per ogni conto, ma ha poca dote’».

A questi detti proruppi in singhiozzi, né potei frenar le lacrime; mi accostai alle umide ciglia il fazzoletto, e gli rivolsi uno sguardo interrogativo, pieno di costernazione e di tristezza. Egli con altro segno mi domandò quello che mi conturbasse; ma la coscienza, che lo mordeva, gliene rivelò tosto il motivo.
«Ritiratevi, signorina!» riprese a dire la cameriera: «Non vi degnate più di guardare in faccia quel perfido!».
Senza rispondere, chiusi la malaugurata finestra e mi ritirai. Sentiva spezzarmisi il cuore: la cameriera mi prodigò de’ soccorsi. Diedi alfine in un pianto dirotto, e versai, in preda alla disperazione, un torrente d’amare lagrime.

«Crudele!» io esclamava sospirando; «non ti bastava dunque la barbarie di abbandonarmi, ma hai pure scelto per tua dimora una casa a me vicina, acciocché io ti vegga ognora al fianco della donna che mi suppianta! ».
Scorsero non poche ore fra il pianto e le smanie. Alfine cercai di calmarmi, per non attirare l’attenzione della genitrice al suo ritorno. Ma ella, avvedutasi delle mie fattezze alterate, delle péste ed arrossite palpebre, volle conoscere il motivo che mi contristava a tal punto.

«Un forte mal di capo» le dissi.
E non mentiva. Il dolore sofferto era di tal natura da farmi ammalare. Infatti, dopo tre soli giorni, che passai nelle più acerbe pene, e nel corso de’ quali evitai di vedere e di farmi vedere da Carlo, fui assalita da una febbre gastro-biliosa che mi durò due settimane.

Non impedì per altro la febbre ch’io mandassi di volta in volta la cameriera alla fatal finestra, per sapere quello che Carlo si facesse. Ne avea in risposta che tutto era chiuso. La pregai d’informarsi da qualche persona di sua conoscenza, se le trattative del matrimonio progredivano, perché l’amore, non meno vivo di prima nell’animo mio, mi lasciava sperare che la notizia della mia infermità avrebbe ritenuto il barbaro dal consumare il tradimento. La risposta che ne ricevetti si fu, com’egli spendesse l’intera giornata in casa della fidanzata, ed una sola settimana mancasse alla celebrazione degli sponsali.

Quest’ultimo colpo pose il colmo alla mia disperazione. Piansi l’intera notte, come sogliono piangere tutte le fanciulle che acquistano l’esperienza del mondo a forza di disinganni e di lagrime.
Havvi donna che non abbia amato? Tale donna, avesse pure infusa nello spirito suo tutta quanta la scienza di Platone e d’Aristotile, non conoscerebbe il mondo che per metà!

La mattina seguente il mio spirito era rasserenato. Sulla tomba della mia passione posi di propria mano la funerea lapide, e vi scolpii oblio! Imitino il mio esempio le giovanette, cui la sana educazione non fa vedere nell’amante altro che lo sposo futuro! L’immagine di Carlo non mi ritornò più nella mente, se non sotto le sembianze d’un personaggio drammatico, le cui vicende m’avessero commossa non ha guari in teatro.
Giunsi alla convalescenza.

Una sera, a notte avanzata, udii il romore di molte carrozze, che fermavansi a non grande distanza dalla mia casa.
«Antonia!» gridai: «Antonia!». Accorse la fantesca.
«Cos’è questo fracasso in istrada? È forse lo sposo?»
«Sì signora. E la sposa, che viene accompagnata in casa del signor Carlo da’ suoi parenti...»
Ebbi una scossa elettrica.
«E le nozze quando saranno celebrate?»
«Stasera stessa».
Poggiai di nuovo la testa sull’origliere, e mi tacqui. Era già rassegnata.

Parecchi mesi dopo il fatto sopranarrato, la città trovavasi in movimento. Reggio attendeva Ferdinando II al suo ritorno da Palermo.
Mio padre fu avvertito allo spuntar del giorno che il vapore era alle viste. Vestitosi in fretta, recossi al luogo del ricevimento.
La sera, una sontuosa festa da ballo fu data nel palazzo Ramirez.
M’acconciai con semplicità ed eleganza. Io e Giuseppina vestimmo un abito di velo cerise col sott’abito dello stesso colore: il seno, decentemente scoverto, era guernito d’una collana d’oro, e la chioma formava una pioggia di ricci, distribuiti sull’una e l’altra parte del volto all’uso inglese.
Eravamo da circa mezz’ora nella sala del ballo, quando giunse il re. Mio padre, facente parte della comitiva, ci presentò a Sua Maestà.
Prima di scegliersi una compagna per la danza, volle Ferdinando starsene spettatore per qualche tempo.

«Quelle due ragazze en cerise sono le vostre figlie, maresciallo?» domandò a mio padre il marito della virtuosa Cristina.
«Maestà, sì».
«Me ne rallegro con voi: ballano a maraviglia».

Finito il valzer, fu pregato di scegliersi una compagna. Lo vidi dirigersi alla mia volta, per invitarmi egli stesso, mentre al ministro Delcaretto indicava col gesto mia sorella Giuseppina, destinata a fargli il vis-à-vis.
Se Ferdinando II avesse saputo condurre il suo governo e trattare il popolo a lui soggetto coll’amabilità cavalleresca che mostrò nelle figurazioni della quadriglia, chi sa per quanto tempo ancora avrebbe l’Italia aspettato il compimento de’ suoi voti!
Dopo il ballo se ne partì.

La politica era allora per me, come per altri moltissimi, una parola vuota di senso: poche volte sentiva parlarne, perché la classe degli ascoltatori incuteva paura a tutti... Chi m’avrebbe detto quella sera che avrei detestato e Ferdinando, e Francesco suo figlio, e tutti coloro che portano il nome borbonico!
Null’altro di singolare ricordo sino al 1838, tranne due fatti accaduti in mia famiglia: siami lecito di rammentarli.
Eravi nel palazzo, da noi abitato, un piccolo coretto, con una grata, che dava nella chiesa di Sant’Agostino: lì ascoltavamo la messa e facevamo le serali preci. Un giorno, mentre Giuseppina vi passava, parte del pavimento sprofondò. La poverina cadde tramortita; e sull’istante si credette lieve cosa quanto era successo, ma l’infelice ne rimase zoppa, anzi per effetto di quella caduta scese al sepolcro pochi anni dopo.

Un’altra mattina, mi recai nella stanza di mio padre per dargli il buongiorno; gli presi riverente la mano per baciarla: egli, sollevatomi il capo, mi domandò sgomentato se mi sentiva male.
«Non ho nulla» risposi.
«Come nulla? Tu non stai bene!»
«Dio mio, è curiosa davvero! Mi sento benissimo!»
«Mirati nello specchio!».

M’accostai al cristallo, e vidi il mio volto coperto di macchie d’un rosso accesissimo. Ei mi fece sedere accanto a sé, ed avvertì mia madre che facesse chiamare tosto il medico. Ma qual fu la nostra sorpresa nel vedere Giuseppina, che pur usciva della sua stanza, col volto più macchiato del mio!
Si comprese allora essere stato l’effetto d’una pillola di bella donna, che ci avevano somministrata in drastica dose, perché avevamo entrambe la tosse convulsa; e ci credettero avvelenate.
Il medico non giungeva; frattanto il nostro stato diveniva da momento in momento più critico. Il rosso del volto spandevasi per tutto il corpo: una gagliarda palpitazione ci sopraggiunse, e la vista ne restò oscurata.
Non arrivò il professore che dopo un’ora di angustia, e con succo di limone e molta neve arrestò i progressi del veleno.
Era il mese d’ottobre. Dopo la tempesta sofferta per l’inganno di Carlo, il mio cuore godeva d’una calma perfetta. Io vedeva colla massima indifferenza quell’uomo accanto alla sua sposa, la quale, o per effetto del caso, o per meditata malignità, usava al marito le più spasimanti carezze, ogni qual volta i miei sguardi cadevano involontariamente su di loro.

Mia madre aveva dato alla luce altre due femmine. La cura ch’io mi prendeva delle bambine mi serviva di distrazione gradevolissima.
Una sera, mio padre ricevette la visita d’un nuovo impiegato civile, il quale menava seco un figlio che sembrava aver compito il quarto lustro appena. Io mi trovava nel salotto col resto della famiglia.
Il giovine, che avea nome Domenico, fermò lo sguardo su di me, senza staccarlo per tutto il tempo che durò la visita.

Benché non potesse dirsi bello di persona, pure i suoi occhi, mirabilmente conformati, sfavillavano un fascino ammaliatore. Era egli conscio di questo potere, egli che mi appuntava con siffatta tenacità?
Questo solamente so, che sotto l’azione di quel fascino un disagio, un malessere, un turbamento singolare s’impadronirono di me con energia crescente. Cercava cambiar posizione, discorrere, divagarmi, ma indarno: quello sguardo inesorabile mi perseguitava in ogni luogo, m’attirava ineluttabilmente a sé, mi magnetizzava.

Il giorno appresso lo rividi al passeggio: lo rividi la sera al teatro. D’allora in poi non uscii di casa senza incontrarlo; l’occhio mio lo discerneva nella folla con penetrazione maravigliosa, ed alla sua vista il seno mi balzava con violenza. Egli, da parte sua, sollecito di seguirmi ovunque andassi, non si lasciava sfuggire veruna opportunità per farmi consapevole del sentimento che io gli aveva ispirato.
«Credi dunque che gli uomini tutti siano della tempra medesima di Carlo?» mi andava dicendo un’intima voce in tuono carezzevole. «No: non sono tutti d’una pasta. Se vera è la massima, che rara è la lealtà in amore e pochi son coloro che la trovano, pure l’esistenza della virtù è comprovata dalla tua propria sincerità, e ti basta fare una seconda prova per rinvenirla. Uno sguardo, che sa rimescolare fin dal più profondo le viscere, può egli non essere messaggiero d’amore, di compassione, di umanità?».

Non potei resistere alla corrente di sì persuasivi suggerimenti.
Riscaldato dall’immaginazione, il mio cuore infiammossi di bel nuovo, mentre la ragione, soggiogata dal sentimento, si taceva, spoglia d’ogni riparo lasciando l’anima all’invasione del fascino.

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